Qualcosa di (molto) personale

Una delle affermazioni intorno alla quale più spesso mi trovo a lavorare con i docenti durante i miei percorsi di teacher coaching è relativa al concetto di ‘metodo’. Spesso mi accorgo di quanto ‘insegnare un metodo’ oppure ‘acquisire un metodo’ siano espressioni la cui fondatezza i giovani (soprattutto!) docenti assegnano a contesti o percorsi che trovo non del tutto rilevanti.

Senza stare a scomodare (come mio solito!) l’etimologia, metodo è ‘sguardo’. Sguardo con il quale abbracciamo la realtà, ci interroghiamo su di essa, lasciamo che essa imprima la sua forma su di noi. Ma è uno sguardo – per così dire – in tralice. Gli anglosassoni utilizzano un termine che amo molto: glimpse. Wordreference lo traduce come ‘barlume’, ‘assaggio’. Di questa particolare declinazione che voglio assegnare al termine ‘metodo’ mi colpisce lo straordinario disallineamento rispetto al significato comune: acquisendo un metodo, impariamo a cogliere oggetti che stanno fuori dal campo visivo, altrove, oltre. Del resto, già ce lo racconta la radice μετα- …

Per la mia storia di insegnamento – e soprattutto per il modo con cui ciò che ho amato e perseguito si è stratificato in me – e per il lavoro di riflessione e ricerca che ho dedicato alla mia professione, posso serenamente affermare che… sì, senza dubbio alcuno all’origine della competenza didattica sia quello sguardo. E null’altro. Tecniche, strategie, programmazioni, ne saranno poi necessaria conseguenza. La solita voce dissidente interiore (alla quale, nel mio percorso con Patrizia Arcadi, sto imparando ad assegnare ruolo e valore) urta contro quanto ho appena scritto e, di rimbalzo, mi apostrofa con una duplice obiezione:

  1. la posizione secondaria assegnata alle strategie non stride con le proposte e richieste correnti in ambito scolastico (v. l’evento Didacta appena concluso)?
  2. dire che il metodo è sguardo non convoglia un’idea di scuola desueta, pedante, orientata sui contenuti e circoscritta alla figura di un ‘insegnante per vocazione’?

Avevo promesso di affrancarmi dall’origine e dal percorso del termine ‘metodo’, ma… davvero mi hai creduto? Ciò che amo di tale sostantivo è il suo essere fondamentalmente un frattale, un prodotto ricorsivo, quasi un paradosso: il metodo è il percorso seguendo il quale riusciamo ad affrancarci dallo stesso! Più lo facciamo diventare parte di noi, più oseremo camminargli a fianco, in un certo senso abbandonarlo. Semplicemente perché avremo trovato una via ‘a lato’ ancor più ragionevole.

Il metodo è, in primis e per ogni disciplina, riflessione sul metodo.

Mi pare quindi evidente che la vocazione all’insegnamento, posto che esista e che trovi spazio in questo discorso, nondimeno non vi trova luogo. L’abilità – ed ancor prima, la scelta – di procedere nella didattica riflettendo sul proprio modo di riflettere non si ascrive ad una posizione identitaria originaria. Che può esserci o meno. 

Il modo di riflettere di un docente è, in sostanza, il modo attraverso il quale la realtà si riflette in lui. Ed è quindi il modo attraverso il quale egli tale realtà presenta ai suoi studenti. Per questo motivo, ho sempre amato definire il docente come un testimone. Testimone di ciò che accade e di come si possa scegliere di lasciarsi investire dagli eventi. E non è una prerogativa esclusiva dei docenti di Lettere… Non è necessario avere il privilegio di poter maneggiare testi classici o brani dell’antologia per insegnare ad uno studente come si affronta la vita!

Penso che con questa mia ultima affermazione siamo giunti ad un punto cruciale: la scuola insegna a vivere. Ad affrontare gli eventi, a dar loro un nome, ad inserirli in una rete complessa di fenomeni, a creare la propria rete di assiomi (evidentemente, non sto parlando della geometria euclidea!) in base alla quale poter gestire il mondo, il proprio passato e il proprio futuro. Dopo – solo dopo – vengono le strategie, le tecniche (dalla mnemotecnica ai visori 3D).

Come possiamo ritenere che un professionista possa dunque essere meno che competente, nella sua disciplina e nelle decine di altre che ‘parlano’ con essa? Che non viva quotidianamente il suo impegno come un ricercatore (le strade laterali hanno bisogno di essere battute, prima di condurvi altre persone a frequentarle)? 

Francamente, stando così le cose, mi pare alquanto poco credibile l’idea che il docente riflessivo sia colui il quale è abbarbicato su posizioni stantie e reazionarie.

Rimane la prima delle due obiezioni. Alla quale rispondo in modo ovvio: credo che nessuno di noi anteponga il mezzo al fine, la strategia alla visione. Di vision, mission etc la narrazione aziendale ed anche dell’imprenditoria individuale, in definitiva, ci assale da almeno una decina d’anni! Per quanto mi riguarda, devo confessare tuttavia che scelgo di ‘mettermi nella scia’ di pensatori e professionisti che in modo chiaro, incurante delle strategie (!) di mercato, ribadiscono la priorità del fine sul mezzo. Sarà una mia debolezza…

A scuola si impara il metodo che permette di stare al mondo. Sì. Il ‘mio’ metodo passa attraverso numeri e teorie, meno frequentemente di quanto vorrei (data l’età dei miei studenti) può appoggiarsi a brani e testi, eppure…

Questa settimana ho ricevuto una delle possibili restituzioni di quello che è il mio lavoro in classe. E ne sono stata commossa e fiera. Come professionista, se anche non lo fossi stata come essere umano. Una verifica comune per classi parallele? Una simulazione Invalsi? Un elogio del dirigente?

Niente di tutto ciò.

Semplicemente… è venuto a mancare mio padre.

[qui non dirò altro sulla sua eccezionale figura, di studioso e di testimone di vita; ieri ne parlavo qui, se ti va di leggere…]

Molti dei miei studenti hanno partecipato alla cerimonia funebre. 

Un ragazzo di una delle mie terze ha scritto un testo, a nome di tutti i suoi compagni, e me lo ha consegnato mentre mi stavo asciugando le lacrime, prima di uscire dalla chiesa.

In quel momento, ho capito che cosa significa che la scuola insegna a stare al mondo.

Ti riporto qualche stralcio della lettera che ho ricevuto:

“La figura del padre è insostituibile e credo che, oltre a mio padre, l’ho riconosciuta molte volte nella mia vita. L’Odissea è la perfetta descrizione di cosa è il padre: nella prima sezione, la Telemachia, Omero parla di Telemaco, che è smarrito e colpito dalla mancanza del padre. “Ché non è morto Ulisse, sparito non è dalla terra; ma trattenuto è, vive tuttora, nel mare infinito”. Lui non è sparito dalla terra ma è in un posto migliore, in un posto che ha sempre desiderato. Sempre nell’Odissea c’è un insegnamento datoci da Omero ma anche da lei: l’ereditarietà. L’ultimo degli argomenti affrontati con lei, uno dei più antichi, un pensiero che cova nel cuore dell’uomo fin da secoli prima di Cristo. E, come lei ci ha insegnato, quando una domanda persiste nell’anima, bisogna fare qualcosa, muoversi. […] Quando ho letto “Il buio oltre la siepe”, mi ha colpito una frase di Atticus: “Non è la paura di perderli che ci fa paura; è che abbiamo dato loro così tanti pezzi di noi che abbiamo paura di perdere noi stessi, senza di loro”. Sappia che non è sola, e neanche noi lo siamo. Grazie, prof”

Io lavoro ogni giorno perché un tredicenne possa arrivare a pensare questo.

Foto di nine koepfer su Unsplash

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