Forse “Chi sono?” meglio si adatterebbe, con quel punto di domanda finale a chiarire il peso della richiesta. O forse ancor meglio sarebbe utilizzare un “Ed io, che sono?”, di liceale memoria.

Docente, formatrice, autrice. In ogni caso, la parola, nella mia vita, sempre. 

Una vita di parole per capire, parole per comunicare, parole per descriversi, parole per narrare.

E allora può essere che quel punto di domanda iniziale descriva meglio di qualsiasi altro tentativo il ritrovarmi a metà strada fra l’attrazione esercitata dall’ambiguità del termine e la sua chiarezza. A fronteggiare il bivio fra la tentazione della scrittura e la dedizione all’insegnamento e alla comunicazione. Di quelle discipline, oltretutto, che paiono meno inclini a subire il fascino dell’ambiguità: la matematica, la fisica…

Ma se è vero che una parte di me vede ogni cristallo (le parole per dire ciò che è certo) sgretolarsi, fondersi e colonizzare altre regioni, vi è un altro aspetto che mi porta in direzione opposta. Perché le parole esistono anche per dire l’indicibile,  l’oscuro, ciò che muta di continuo. Sono principalmente i racconti che – a “mezza voce” – continuamente facciamo a noi stessi e che più degli eventi concreti contribuiscono a convincerci della nostra identità.

“Come posso scoprire chi sono?” / “Come faccio a capire quel che accade?” / “Come potrei vivere meglio?” / “Posso riuscire a descrivere in modo più efficace il mio lavoro e la mia azienda?”

Iniziamo quindi a metterle in fila, a smontarle, a disporle in accostamenti imprevisti, ad obbligarle a dire ciò che vorrebbero tenere per sé. Lasciamoci affascinare – sì – da questi fuggevoli atomi, ma proviamo – comunque – ad addomesticarli.

Io lo faccio da sempre.

“Non si raggiunge l’illuminazione fantasticando sulla luce, ma prendendo coscienza delle tenebre” 

(Carl Jung)