Ricordi che nell’ultimo post ti stavo parlando di creatività, di formazione e di sir Ken Robinson? Qualche giorno fa è successa una cosa per me commovente. La mia scuola ha proposto agli studenti delle seconde e delle terze un incontro con Marco Dolci, ingegnere aerospaziale italiano che lavora da dieci anni al NASA Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Un incontro alla primissima ora per noi, e per lui poco prima di correre a dormire!
Oltre a raccontare ai ragazzi del rover Perseverance, a mostrare le immagini dell’ ‘ammartaggio’ e a parlare del ruolo che egli svolge nel team del JPL, in uno dei passaggi più significativi dell’incontro, Dolci ha ricordato come il proprio dell’essere umano sia quello di affrontare l’imprevisto e di tentare un’ipotesi risolutiva. A partire dai dati che abbiamo in nostro possesso.
[per rimanere in tema aerospaziale e per dare seguito alla mia anima nerd, hai presente la scena di Apollo 13 nella quale gli ingegneri a Houston si trovano nella necessità di trovare la sequenza di azioni per la costruzione dei filtri a CO2? “Questo è quello che hanno lassù… diamoci da fare!” così si rivolge il direttore di volo ai suoi collaboratori, rovesciando sul tavolo oggetti vari e materiali, copia di quelli presenti sulla navicella]
Obbligandomi a rimanere tra le mura della scuola, affrontare l’imprevisto implica, per me, alcuni aspetti imprescindibili della mia quotidiana attività in classe:
1. agire in modo da testimoniare che il valore dell’esercizio è subordinato ad altro (e cioè che l’esercizio è sempre e solo un mezzo e mai un fine), e perciò
2. sugli esercizi lavoro prevalentemente in classe; individualmente o a gruppi, per livelli di competenza oppure in modo omogeneo, con correzione tra pari e supervisionata da me
3. qualsiasi ‘spiegazione’, quindi qualsiasi incontro con un tema inedito, passa sempre dal disseminare provocazioni che vadano a tentare di smantellare un impianto teorico costruito in precedenza (spesso ci dimentichiamo il valore delle crisi e delle falle, in quella che fu – ed è – la storia di ogni grandiosa e rivoluzionaria scoperta!)
[Ovvero… per essere ancora più onesta, insegnare, per me, è – ben oltre il 99%- solo questo]
Ogni ora di lezione è un avventurarsi nella domanda. Da un adulto autorevole che vive la vita, la conoscenza della realtà, secondo questa modalità, un giovane impara a farlo anch’egli. Per osmosi, direi, semplicemente standogli accanto e contemplando ciò che il suo insegnante sta con attenzione fissando. In un modo che ha molto a che vedere con l’affezione e la stima, ed anche con l’imitazione (la mimesis, come la definivano gli antichi), colui/colei-che-sta-diventando-grande impara che l’unica via per stare al mondo è esercitare l’arte della domanda.
E quindi… ritornati in aula, ho ripreso con i ragazzi qualcosa di ciò che era stato appena detto in auditorium. In particolare, ho sentito doveroso farli riflettere sul necessario equilibrio che coloro i quali agiscono nella scuola – la scuola in generale, intesa come Istituzione – devono riuscire ad instaurare tra ciò che è problema (cioè domanda) e ciò che è esercizio. Proprio per poter formare i giovani ad affrontare l’imprevisto. E quindi – nella prospettiva che riportavo la scorsa settimana, attraverso le parole di Robinson – per potere renderli efficaci innovatori. “Vi auguro di incontrare sempre insegnanti che vi mettano di fronte alla domanda scomoda, aggrovigliandosi in essa insieme a voi, invece di nascondersi dietro la comodità di una richiesta per la quale non c’è risposta ma solo ripetizione”.
Una silenziosa e metaforica lacrimuccia m’è scesa quando un mio studente ha allora commentato, come se fosse la cosa più normale del mondo: “Lei ci ha insegnato per tre anni che non si deve avere paura della domanda; sapremo andarli a cercare, quegli insegnanti”.
Fine del momento-commozione.
In settimana mi era già capitato di avviare una riflessione – suggerita da altri spunti – su quale sia il significato racchiuso nel concetto di ‘risposta’; te lo lascio qui, nel caso volessi vagabondare un paio di minuti insieme a me.
E dato che – non potrebbe essere diversamente – mi piace mettermi nei panni di chi obietta…
a. Ma non è una deriva un po’ troppo filosofica, tutta questo insistere sull’arte della domanda, applicato alla scuola…?
b. L’abbandono scolastico, il disagio giovanile, quell’analfabetismo funzionale che ormai è una triste certezza e ha il suo riverbero anche sul mercato del lavoro, perché dovrebbero essere sanati da una smaccata e rea confessa attitudine alla generazione della crisi delle certezze?
D’impeto, direi che uno degli aspetti che maggiormente sorprende (e quindi cattura e avvicina) un undici-diciottenne medio attuale è la scoperta che… si può continuare a scoprire! Nell’età della disillusione, del disincanto nei confronti di qualsiasi forma di ‘promessa’, la scuola può invece ancora dimostrare che il futuro di ognuno è aperto a pressoché infinite possibilità (la mia ormai nota verve orientativa qui emerge pienamente!). Che sono le infinite vie interpretative di un dato di realtà. Sempre a patto che si decida di volerlo sottoporre ad indagine.
“Ma una struttura sintattica, la legge di gravitazione universale, la formula per calcolare il volume della sfera… quelle sono. Non si tratta di opinioni suscettibili di negoziazione!” (è tornato l’obiettore)
Imporre lo status di abitudine alla domanda, durante un’ora di lezione (ma oserei dire anche durante una normale cena in famiglia…), significa però qualcosa di molto diverso che non lasciare che si instauri una babele di versioni egualmente valide.
♧ Innanzitutto, servono regole. Civili. Di ascolto, rispetto.
♧ Poi, è necessario educare il pensiero a diventare parola. Discorso che argomenta. E per questo scopo servono cura, attenzione, lentezza di pensiero. E quindi potrei fermarmi qui, capisci bene…
Nemmeno a farlo apposta, un paio di giorni fa questo video è capitato lungo la mia strada. “The art of asking the right questions”… Sì, è davvero un’arte. Come fa osservare Berger, una domanda ‘corretta’ è quella che ti fa organizzare il pensiero intorno a ciò che non sai ancora.
Le domande che poniamo sono i problemi che risolviamo.
Le sfide che i nostri giovani dovranno affrontare – storiche, culturali, professionali – urlano che i sistemi formativi siano in grado di offrire loro le capacità immaginative e creative (che fioriscono in un contesto di educazione alla domanda) indispensabili per essere innovativi.
“La civiltà è una lotta tra educazione e catastrofe” (H.G. Wells)
Foto di Towfiqu barbhuiya su Unsplash