Sir Ken Robinson aveva un curriculum incredibile. Lavorò con il sistema nazionale di educazione inglese, con singole scuole, presidi, docenti e studenti; questi ultimi dall’età della scuola dell’infanzia fino all’università. Diresse progetti di ricerca nazionali, fu docente universitario e avviò programmi di coaching per docenti. Ma lavorò anche con banche, multinazionali e compagnie di assicurazione; con musei, orchestre e compagnie di teatro. Il suo lavoro lo condusse ovunque in Europa, poi in America del Nord e del Sud, in Medio Oriente e in Asia.
Se non lo hai mai ascoltato parlare di educazione, rimedia con questo!
‘Incontrare’ sulla mia strada di ricerca Ken Robinson ha significato accorgermi che ciò in cui ingenuamente fortissimamente credevo, agli inizi della mia attività di insegnamento (venticinque anni fa!), aveva già potuto trovare risposte altrove. Con ‘altrove’ intendo innanzitutto ‘fuori dalla mia mente’ (parafrasando proprio il titolo di uno degli ultimi volumi pubblicati da Robinson), ma soprattutto (ahimè, come spesso accade)… fuori dall’Italia.
Mi colpì, in particolare, quello che sir Ken scrisse, una volta. Te lo traduco e riassumo per sommi capi:
“Quando parlo con leaders di aziende, essi si lamentano che il sistema educativo non generi la tipologia di persone delle quali essi hanno urgente bisogno: persone che sappiano leggere, scrivere e far di conto; che possano analizzare le informazioni e le idee; che sappiano generare nuove idee e migliorarle; che riescano a comunicare in modo chiaro e lavorare bene con altre persone.
Quando parlo con docenti e educatori, essi si lamentano che la ‘cultura della standardizzazione e del test’ – che i politici di solito impongono nell’interesse dell’economia – stia soffocando la creatività sia degli studenti che dei docenti. Essi vorrebbero una forma di sistema educativo che fosse più equilibrata e dinamica, che consentisse un uso adeguato delle energie creative degli attori in gioco.
Nel frattempo, i genitori rimangono svegli di notte per le preoccupazioni riguardanti la formazione dei loro figli”
Ma i figli, quei figli e studenti e futuro personale delle aziende… che cosa vogliono?
Io credo che vogliano un sistema di formazione che riconosca la loro unicità come persone (preferisco non usare il termine ‘talento’, che suona anch’esso alle mie orecchie un po’ troppo volto ad uno scopo utilitaristico). Classi e lezioni all’interno delle quali essi possano sperimentare il nuovo e l’inedito, ma anche la necessità di rimboccarsi le maniche per ottenere un qualsivoglia tipo di risultato. Docenti che li guidino verso quel risultato, ma che non dimentichino che la cosa più importante che può insegnare la scuola è lo stare al mondo. Cioè vivere accorgendosi del significato delle giornate e degli anni, e farlo in vista di una prospettiva, guardando un orizzonte.
Ecco. Questo – ingenuamente – pensavo, venticinque anni fa. Ma credevo fosse una mia ‘stortura’, in qualità di docente alle primissime armi. Un retaggio di quella che ero stata come studentessa. Mi guardavo intorno e osservavo la collega, molto più esperta di me, tentare di insegnarmi che “si segue il libro e si fanno esercizi; molti, moltissimi” e tentare di convincermi che “come le insegni tu, le cose, saranno anche affascinanti, ma poi a loro non rimane niente e devono saperle fare, le espressioni!”. Non ricordo se provai nemmeno a seguirli, i suoi consigli, espressi con tanta empatia…
In seguito, ho imparato a seguire (anche) il libro e ho persino provato ad assegnare una ventina di espressioni per volta e a programmare una verifica a settimana! Ma non è questa l’immagine che credo di aver lasciato, ai miei (ormai ultra-laureati) studenti, di quale sia il significato delle discipline che insegnavo loro. E so con certezza che nessuno di loro ha poi scelto un liceo scientifico oppure la facoltà di Matematica perché era rimasto folgorato (a tredici anni, non a sette) dalla potenza di un’espressione risolta. Ed anche coloro i quali dalla matematica si sono coscientemente tenuti il più lontano possibile, credo abbiano trattenuto la certezza che essa fosse ‘anche per loro’, nonostante le difficoltà a trattenere qualche procedura o la non immediatezza nel cogliere un’immagine o una struttura.
Se hai ascoltato quel TED talk del quale ti ho lasciato prima il link, noterai quanta enfasi sir Robinson pone sul termine ‘creatività’. Infatti essa è l’aspetto del suo pensiero che più ha destato risonanza in me. Anche in qualità di docente.
Anche io intendo la creatività in modo potente. Come attitudine ad esercitare la poiesis e percorso (anche scolastico) per apprenderne i contorni e non come ‘parola-prezzemolo’ dietro alla quale nascondersi per giocare sulla frustrazione dell’adulto medio, soffocato da un orizzonte di piombo.
Ma di questa possibilità – cioè di declinare in modo concreto e reale la prospettiva dell’apprendere come ‘esercizio di creatività’ – ti racconterò in un prossimo post.
“Inventare è discernere, è scegliere […] fra tutte le combinazioni che si potranno scegliere, le più feconde saranno quelle formate da elementi tratti da settori molto distanti.
Non intendo dire che per inventare sia sufficiente mettere insieme oggetti quanto più possibile disparati: la maggior parte delle combinazioni che si formerebbero in tal modo sarebbero del tutto sterili. Ma alcune di queste, assai rare, sono le più feconde di tutte”
[Foto di RhondaK Native Florida Folk Artist su Unsplash]