Sto leggendo “L’età sospesa”, di Aidan Chambers, che mi ha consigliato la mia amica Chiara Sinchetto (fatevi un giro tra i suoi corsi, perché sono uno più interessante dell’altro!). Devo confessarlo: l’ho acquistato – oltre per il fatto che me lo ha consigliato lei – per il titolo. L’originale The age between – che già era bellissimo di per sé – è stato reso da EquiLibri facendo ricorso a quel verbo, ‘sospendere’, che racconta di un ondivago sostare ‘nel mezzo’ di qualcosa ma anche evoca una sensazione di attesa, tensione, e forse anche di un certo timore.
Stiamo parlando di un limbo; di un limbo che è l’adolescenza. Aggiungerei (anche per deformazione professionale) la sommatoria tra preadolescenza e adolescenza, tenendo conto dell’inevitabile incertezza… anzi, della certa impossibilità nell’assegnare i confini temporali all’età sospesa. Vi sono bambini che a dieci anni possiedono una maturità ed una sensibilità che fa vivere loro con affanno e incongruenza l’ultimo anno di scuola primaria, e vi sono – specialmente nel tempo che è il nostro – adulti che faticano ad abbandonare gli spasimi dell’adolescenza.
Muovendo dall’analisi di due romanzi – Il giovane Holden e Bonjour, tristesse – Chambers osserva come l’età sospesa della gioventù viva dell’agitarsi inquieto del soggetto tra due poli: l’insofferenza nei confronti dei legami parentali e il desiderio di ‘oltre’, da un lato, e il radicamento alle proprie condizioni di nascita, al proprio background famigliare… e quindi in ultima analisi ai propri legami parentali!
Si tratta di una aporia che non solo è difficilmente risolvibile, ma è sostanzialmente inevitabile: il sano sviluppo emozionale del bambino ha assoluto bisogno che essa permanga. Sappiamo benissimo, infatti, come il nostro percorso di acquisizione di identità e consapevolezza di ognuno richieda non pochi anni. Abbiamo avuto bisogno di sperimentare la sensazione di ondeggiare tra due estremi: tra un passato che rinnegavamo urlando e un futuro verso il quale indirizzavamo il nostro desiderio. Tra un passato che, però, rappresentava la certezza e il futuro che, per definizione, ne era del tutto privo. Nell’alternanza tra i due estremi, nel nostro viaggiare ogni giorno da pendolari tra essi, con estrema fatica abbiamo posto i mattoni della nostra identità. Tutt’altro che definita, qualsiasi sia l’età alla quale ci troviamo, ma orientata in una direzione.
Qualche mese fa, nel corso di un workshop rivolto a docenti e famiglie, mi ero soffermata sull’analisi degli strumenti adatti ad un orientamento consapevole, nella scuola secondaria di I grado e nel biennio della secondaria di II grado. Strumenti che sono tutti declinazione di un unico: il linguaggio.
Scegliere la propria via nella vita significa scegliere di dedicarsi a quel linguaggio che rappresenta la corrispondenza tra la nostra mente e la realtà.
E la mente di ognuno è unica. Perché il linguaggio che esprime e con il quale si esprime è unico. Fondamentale è saperlo riconoscere. E, ovviamente, assecondarlo.
Una delle caratteristiche fondanti del linguaggio simbolico – ovvero del linguaggio tout court, perché ogni linguaggio È simbolico – è quella di essere pertinente E flessibile. Mi sono appassionatamente smarrita in questo studio quando ho scritto “Come siamo diventati umani”, ma qui vorrei semplicemente riportare uno specifico fatto. Perché è il nodo che collega la neurofisiologia con la didattica e con la meravigliosa sensazione di ‘essere al proprio posto’, nella vita.
Quando parliamo di pertinenza e flessibilità del linguaggio, facciamo riferimento alla capacità che esso ha di essere perfettamente corrispondente alla situazione data, rigoroso e preciso, e contemporaneamente di essere capace di elaborare una soluzione inedita, ad un problema imprevisto che si dovesse presentare all’interno della situazione conosciuta.
I linguisti definiscono queste due abilità grammatica e pragmatica del linguaggio. Che si tratti di una lingua parlata, di maestria artigiana o di espressività corporea. La nostra mente (vi risparmio ora i dettagli neurofisiologici!) possiede alcune strutture che si sono rivelate responsabili della percezione del ‘qui’ e del ‘là’, dell’ ‘ora’ e del ‘poi’. E costantemente, incessantemente, la nostra mente ondeggia tra gli impulsi nervosi che dicono queste coppie di contrastanti realtà. E così facendo, istante per istante, costruisce la realtà, cioè la conosce.
Il lavoro più faticoso è conoscere la realtà interna, la nostra identità. Costruirla in base a ciò che vediamo, viviamo, ricordiamo, desideriamo, speriamo e temiamo.
Avere solide radici proprio per staccarsi da esse.
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