Uno dei temi che più mi sono cari è quello dell’identità.
Per quanto riguarda la mia attività all’interno dell’istituzione ‘scuola’, tale preferenza si esplicita nel lavoro di ricerca che da qualche anno svolgo intorno alle varie sfaccettature che assume il termine ‘orientamento‘. [I professionisti dell’educazione definiscono con esso tutta quella serie di azioni che essi progettano e mettono in campo affinché uno studente sappia prendere in modo consapevole una direzione efficace, appunto, per quanto riguarda la sua vita scolastica e accademica. Orientarsi alla scuola superiore, orientarsi all’Università…]
Ma la scuola non è il solo ambito all’interno del quale possedere una ‘bussola’ funzionante risulta essere uno strumento insostituibile. Se ha senso pensare in termini di orientamento nella scuola – e, anzi, avrebbe senso indirizzare l’intera programmazione di ogni disciplina in ogni ordine di scuola alla luce di questo concetto! – è perché orientarsi è (banalmente?) ciò che conta nella vita…
Perché orientarsi ha (banalmente?) a che fare con l’identità: “sa dove andare chi sa dove si trova”
Ernesto De Martino era un antropologo – ma anche filosofo e psicologo – che, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, dedicò la sua attività di ‘scavo’ al concetto di identità. In particolare legandolo ai due termini di ‘presenza’ e ‘crisi’: l’origine storica del Sé, i connotati e confini dell’identità, sono tutte astrazioni che possono essere definite anche in termini di presenza individuale.
La presenza, per De Martino, è il ritrovarsi di ogni individuo al centro di un proprio mondo soggettivo ordinato e dotato di senso, e quindi al centro di un ambiente storico e culturale al quale egli sente di appartenere. Caratteristica ineliminabile di questo ritrovarsi è tuttavia il fatto che esso sia una acquisizione precaria, soggetta al rischio della crisi.
Non si sa che si è senza sapere chi si è (G. Jervis)
Il sentimento della presenza di sé a se stessi possiamo chiamarlo quindi il ‘sentirsi esistere’. Che è anche il sentimento dell’unità dell’Io. Su tale certezza di unicità si fonda l’esperienza quotidiana del vivere e da essa nasce la percezione di un ordine all’interno di esso. Pensiamo a quanta tragedia, in epoca contemporanea, abbia invece determinato la desolante sensazione di frammentazione della propria identità fra ciò che si è e ciò che si pensa di essere, fra ciò che si pensa di essere e ciò che si è costretti a fare, fra ciò che si è costretti a fare e ciò che si vorrebbe fare…
De Martino analizzò alcuni meccanismi sociali e rituali mediante i quali le comunità e gli individui tentano di resistere al rischio della crisi, cioè della perdita della presenza. Nella popolazione dei Tungusi, ad esempio, vi è in uso una parola – “olon” – che indica una condizione fisica e psicologica caratterizzata da fragilità emotiva, crollo delle certezze, mancanza di energia davanti ad esperienze particolarmente intense. Ciò che viene perso, dall’individuo che manifesta tale ‘patologia’, è una coscienza che sia in grado di distinguere tra presenza e mondo: mente e corpo del soggetto confluiscono nell’esperienza (che potremmo a ragion veduta chiamare totalizzante), si lasciano trascinare da essa e non sono più in grado di governarla e giudicarla.
Mi sembra la descrizione esatta di ciò che è accaduto ad ognuno di noi e da cui, con immensa fatica, potremmo aver imparato a scappare.
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Mi trovo qui descritta perfettamente.
Non ho imparato a scappare.
Sono ancora invischiata nel riconoscimento della crisi.
Mi sono state illuminanti le tue parole: grazie
Grazie Paola per aver letto in modo così profondo le mie parole. Credo che ci siamo invischiati tutti, anche se siamo animati dalle migliori intenzioni. Buon lavoro!