Se l’identità è quel complesso e mutevole panorama che, istante dopo istante, noi narriamo a noi stessi, possiamo assegnare alla relazione tra il Sé e l’Altro il ruolo di ‘illuminare’ questo paesaggio. Quanto più riusciamo a metterne a fuoco i dettagli, tanto più saremo capaci di orientarci e di intraprendere le strade che si aprono davanti a noi.
Chiamerò, per comodità, tutto ciò che è ‘altro da Sé’ con il termine ‘mondo’, intendendo con esso non soltanto l’insieme di eventi, esperienze ed oggetti che si presentano ai nostri sensi. E che sono quindi ‘esterni’ a noi. Con ‘mondo’ voglio intendere anche il complesso – e spesso complicato – mondo interiore: le emozioni e gli stati d’animo che si alternano, i pensieri, le aspettative; ricordi e desideri.
Dimentichiamo per ora la realtà esterna, dimentichiamo la nostra quotidiana occupazione di conoscerla, ammaestrarla. Nel lavoro come nello studio o nelle relazioni umane.
Mi interessa molto di più il profilo delle colline interne: la conoscenza di noi stessi, la percezione della nostra identità.
Proseguendo con la metafora iniziale, diremo poi che la luce che gettiamo sul mondo – dalla quale emerge la conoscenza di esso – assume tonalità differenti. Per descrivere le diverse possibilità che abbiamo di affermare a noi stessi chi siamo, gli psicologi Joseph Luft e Harrington Ingham elaborarono (negli anni Cinquanta) uno strumento analitico che divenne noto come la “finestra Johari”. Si tratta di una tecnica di analisi che serve a chiarire a noi stessi la funzione delle relazioni che abbiamo con l’Altro.
Come appare nella grafica in evidenza, la finestra Johari è costituita da quattro aree, definite dall’incontro fra due assi ortogonali. Rispetto all’originale, mi sono presa la licenza di modificarne l’aspetto per renderla più coerente con il linguaggio matematico del piano cartesiano (deformazione professionale, sì!).
Su entrambi gli assi sono riportate le gradazioni di conoscenza. L’asse orizzontale racconta il contesto del Sé, quello verticale descrive l’ambito degli Altri.
Il semiasse positivo delle ascisse (verso destra) raccoglie ciò che è conosciuto dal Sé, mentre il semiasse negativo (verso sinistra) è costituito da ciò che è ignoto a Sé.
Il semiasse positivo delle ordinate (verso l’alto) è l’ambito di ciò che è noto agli altri, mentre il semiasse negativo (verso il basso) racchiude ciò che è ignoto agli altri.
Combinando le informazioni riportate sui due assi, che cosa ci racconta questo speciale piano cartesiano?
Il primo quadrante (in alto a destra, secondo la notazione matematica) è illuminato dalla luce intensa di ciò che sappiamo bene di noi stessi e contemporaneamente da ciò che gli altri sanno di noi. Si tratta di ciò che Luft e Ingham definiscono l’arena.
Il secondo quadrante (in alto a sinistra) è definito blind spot: è il contesto che raccoglie tutto ciò che è noto agli altri ma che noi ignoriamo.
Il terzo quadrante (in basso a sinistra) è l’abisso dell’oscurità più completa: è il regno di tutto ciò che ignoriamo di noi e gli altri ignorano di noi. Viene definito l’ignoto, ma io trovo che sia il reame incantato…
Il quarto quadrante (in basso a destra), infine, costituisce la facciata: rappresenta ciò che sappiamo di noi stessi e che gli altri ignorano.
Ripeto: sono affascinata dal terzo quadrante.
Quante sono le cose che non sappiamo di non sapere…?